Il costume di Cate Blanchet in Elizabeth, il tailleur di Maryl Streep in The Iron Lady e il completo bianco di Sharon Stone in Basic Istinct. L’abito stazzonato di Charlot e quello bianco di John Travolta in La Febbre del sabato sera. Dalla Golden Age hollywoodiana a oggi, tutta la storia del cinema in Hollywood Costume, al Victoria and Albert Museum di Londra dal 20 ottobre 2012 al 27 gennaio 2013. Dove si dimostra che l’abito fa il personaggio.
Meryl Streep dice: «In ogni film, i vestiti rappresentano metà della battaglia nella guerra che un attore ingaggia per creare il personaggio che deve interpretare. Ho molte opinioni su come presentare i miei personaggi, ma in realtà mostriamo molto a partire da quello che indossiamo sul nostro corpo». Le fa eco Ann Roth, premio Oscar per i costumi di Il paziente inglese (1997): «Non vesto le star del cinema. Faccio abiti per attori che devono interpretare dei personaggi». I costumi di un film, allora, sono importanti quanto la sceneggiatura, la regia, gli attori. Anzi, molto spesso creano il personaggio, lo rendono credibile. Quindi, l’abito fa il personaggio. È evidente in tutta la storia del cinema, soprattutto a Hollywood, dove i costumisti hanno spesso anche avuto il pregio, oltre a creare i personaggi, di creare la moda degli anni in cui hanno lavorato. Si pensi a Adrian che, vestendo le dive della Golden Age hollywoodiana, è in realtà ricordato anche come il padre della moda americana.
Hollywood Costume, la mostra d’autunno del Victoria and Albert Museum di Londra (dal 20 ottobre 2012 al 17 gennaio 2013) rende molto evidente questa relazione fra personaggio e abito, esplorandola dagli anni del muto a oggi.
Divisa in tre atti (tre gallerie che rappresentano i due atti e il finale di un film), la mostra rende evidente a tutti il meccanismo per cui Adrian abbia reso credibile il personaggio di Dorothy nel Mago di Oz a partire dall’abito a grembiulino, come l’abito disegnato da Walter Plunkett e realizzato dalla tenda di velluto verde abbia dato il mordente a Rossella O’Hara di Via col vento e la petite robe noire di Hubert de Givenchy abbia creato Holly Golightly di Colazione da Tiffany, i tailleur abbiano aiutato Meryl Streep a definire la sua Margareth Tatcher e l’abito bianco indossato con la camicia nera sia in realtà il Tony Manero di La febbre del sabato sera. E ancora, l’abito stazzonato sia Charlot, il tubino di perle di Adrian sia La sposa vestiva di rosa con la faccia di Joan Crawford… E via così per una mostra che ha non solo il compito di mettere in evidenza il ruolo del costumista, ma di educare a una lettura circolare del cinema che non può prescindere né dell’abito né dalla moda.
E si capisce, anche, perché la moda sia sempre stata così legata al cinema e viceversa, in un rapporto simbiotico che spesso ha favorito più il cinema che la moda ma che ha permesso tante volte di rendere plausibile una moda nella vita reale soltanto perché sdoganata da un film.
John Travolta ne La febbre del sabato sera (1977) diretto da John Badham. È tutto merito dell’abito bianco e della camicia nera se Travolta è rimasto per sempre Tony Manero.
Cate Blanchett in Elizabeth: The Golden Age (2007) diretto da Shekhar Kapur. La superba interpeatzione della Blanchett è stata molto aiutata dalla sontuosità dei costumi, calcolati e adattati scena per scena
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